Carletto
Carlo Bartoli non è un aeromodellista, in quanto ha sempre coltivato un unico hobby: la gnocca.
Carletto, classe 1930, mobiliere, è tutt'ora un mio carissimo amico, e nonstante il vecchio leone sia un po’ appannato, ci vediamo spesso, anche se lui abita in Emilia ed io in Veneto. Eravamo amici di bevute e scorribande fin da quando io, sedicenne, passavo le serate nelle osterie della "Bassa" e del mantovano suonando la chitarra insieme a suo cugino Tore, chimico e professore di matematica, e suo padre, Arnaldo Bartoli, classe 1900, apprezzatissimo pittore e tremendo violinista. Carletto possedeva un cabinato a motore che teneva sul Po, il Bobo. Non era un grande cabinato, ma sul Po faceva la sua porca figura quando passava davanti alle spiagge del fiume, in quegli anni frequentatissime. Naturalmente il Bobo era adibito all'hobby sopra citato, ma spesso, (per la verità quasi sempre), era il nostro rifugio domenicale, dove passavamo la giornata pescando alborelle per friggerle, innaffiandole con abbondante lambrusco. Inutile dire che quando mi dedicai all'aeromodellismo, Carletto non si appassionò affatto, anzi, trovò addirittura che il mio era un hobby da "segaröl" (segaiolo). Suo padre Arnaldo invece, da artista sempre curioso del nuovo, condivise con me molte giornate di volo. Quando iniziai a costruire i primi idrovolanti il Bobo divenne il mio "idroscalo", anche Carletto trovò che tutto sommato era un modo per rompere la noia delle lunghe giornate sul Po.
Con i resti di vari modelli avevo costruito una specie di riproduzione di un idro Fiat che aveva partecipato alla Schneider. Non ricordo il tipo di aereo, era un monoplano a scafo centrale con motore in pinna il cui trittico, visto su una rivista, mi affascinò. Venne fuori abbastanza bene, ma non c’era modo di farlo staccare dall'acqua: quando davo motore affondava la prua del galleggiante nell'acqua, produceva un sacco di spruzzi, e non ne voleva sapere di andare in planata per prendere la velocità sufficente a decollare. All'ennesimo tentativo, e dopo avermi preso un bel po’ per il sedere, Carletto mi disse -"Da' quà che ti faccio vedere io come si fa!"- io mi guardai bene dal passare la radio ad uno che non ne aveva mai toccata una, ma lui insistette e continuò a sfottermi finché io, per farlo tacere, gli passai la radio col motore al minimo, tanto, più che sguazzare su e giù non avrebbe potuto fare. - “Come si fa a girare?” - mi gridò, - “Con questo qui!” - gli dissi muovendogli il pollice sullo stick sinistro - “E per andare su?” - “Sempre con quello ma muovendolo su e giù” - risposi sicuro che comunque non avrebbe mai decollato, - “E per dare gas?” - “No, il gas è meglio che non lo tocchi!” - meglio non rischiare, pensai. Lui continuò imperterrito a smanettare sui comandi e prima che potessi intervenire diede tutto gas, l’idro si mise in planata e... decollò. Incredibile! Impossibile! Carletto non aveva mai preso in mano una radio, ero allibito e frustrato... “Toh, guarda qua! Pilota del cavolo! Guarda come si fa a pilotare!” gridava Carletto strafottente mentre il modello balzava su e giu come impazzito, senza però, devo ammetterlo, andare mai troppo vicino all’acqua. Pareva quasi che Carletto sapesse quello che stava facendo, ma era assolutamente impossibile, perciò gli strappai di forza la radio dalle mani e misi il modello in linea di volo - “Ah beh! Adèss tüt i stüpid jè bon!” - (ora sono tutti capaci!) disse Carletto - “Ora l’è facil! Dopo che io l’ho fatto decollare!...” - in qualche modo ammarai e riuscii a flottare fino al Bobo. Carletto non la smetteva più di menarla, quella sera ai Sabbioni di San Matteo, nell’osteria di Monfarda raccontò l’episodio almeno trenta volte. Ogni presente se lo fece ripetere almeno due o tre volte - “Veh, Carletto, ma cum’ela che Pallino (il mio soprannome), al n’era mia bon ad far vular l’aeroplanen?” - Carletto ripeteva la storia, aggiungendo ogni volta qualche particolare più o meno di fantasia, e tutti gli avvinazzati presenti sghignazzavano a più non posso. Ancora oggi, dopo più di trent’anni, quando Carletto mi accompagna a qualche manifestazione, non sa resistere, e mentre sto lodando un certo mio modello, interviene dicendo - “Si, ma di quella volta che ho dovuto insegnarti a decollare dal Po, non gliela racconti mica, eh?...” e ricomincia la tortura.
Il sottoscritto, Tore (Dott. Salvatore Doppiù), Carletto e suo padre Arnaldo. Tore e Arnaldo se ne sono andati. Anche se non ci credo sarebbe bello, prima o poi, ritrovarci tutti.